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 Lettere a WL

04 Marzo, 2005
Maicol ci teneva a farsi capire di Vincenzo Andraous
Quante volte siamo andati a fare una nuotata nella piscina dell’oratorio, lo sorreggevo e, via andavamo a prendere la nostra parte di luna, tutta dentro una buona faticata che sfiniva entrambi.

Maicol ci teneva a farsi capire di  Vincenzo Andraous

Quante volte siamo andati a fare una nuotata nella piscina dell’oratorio, lo sorreggevo e, via andavamo a prendere la nostra parte di luna, tutta dentro una buona faticata che sfiniva entrambi.

Da tanti anni il suo fisico aveva mollato gli ormeggi, se ne era andato da un’altra parte, ma lui nonostante le arrabbiature, reagiva a questa forma “bullistica del destino”, con una lucidità che non è facile trovare nelle persone che circondano la nostra vita.

Maicol è nato così, con l’esistenza a orologeria, con un  tempo corto, non certo per colpa sua, è nato così con la sua missione ben scolpita sulla pelle.

Lo ha svolto con cura il suo impegno, anche quando la mente e il cuore ritornavano agli anni che parevano significare la sconfitta della malattia, i giorni della gioia, dell’amore, delle monellate, delle provocazioni, per tentare di esorcizzare la condanna, che nonostante tutto, resta sconosciuta alla ragione, che ostinata  ama e crede e spera l’impossibile.

C’è stato un momento nella vita di Maicol, in cui il mondo gli ha spalancato le porte, fino a renderlo immortale, in una storia di indicibile sofferenza,  un esempio leale di caparbia speranza, giungendo a contenere il suo male ingiusto, a non renderlo un semplice stato fisico da dimenticare, neppure a farne una condizione di rancori addomesticanti.

Maicol è qualcosa di diverso da subito, non innalza muri, non elargisce lacrime di commozione impropria, di compassione travestita a pena da spendere in fretta.

Ora in quella stanza non c’è più Maicol disteso sul letto, sulla poltrona, a pensare, a parlare, a tenere desta una preghiera per chi piegato giungeva  dalle sue parti.

Quel che c’è da fare ora, è in quei silenzi che assalgono le orecchie, facendo rumore, spingendo e accelerando, accostando e rallentando, fino a costruire una sequenza di movimenti, per rendere una assenza un fermo immagine, una partenza in un palpito che non si vede.

Maicol non è mai stato prigioniero in questa gabbia di partenza, in queste catene di arrivo, neanche di rimbalzo soprassedeva alla sua costrizione, Maicol era un uomo coraggioso, per tanti ragazzi di questa Comunità Casa del Giovane, che faticano a ritrovare un senso, a dare un senso, Maicol è stato per loro, e  per me,  davvero un esempio, consigliando ad ognuno di ritrovare l’umiltà necessaria per affinare quella pratica unica e insostituibile tutta dentro il concetto del “buon esempio”, del non fare agli altri ciò che non vuoi sia fatto a te, del fare bene o al meglio delle tue capacità, se pretendi che faccia altrettanto chi ti è vicino.

Questa sua grande dignità conferma che  non esiste sofferenza, dolore, pena, che possano inchiodare al proprio male, che possano indurre chicchessia a pensare di non potere fare niente, se non rimanere indietro, nel silenzio dell’insopportabilità.

Quando Maicol era tra le mie braccia, ho sempre avuto netta la sensazione di avere tra le mani quelle risposte che spesso non vogliamo cercare, neanche quando sono a un palmo dal naso.

In quella sua voce c’è il richiamo al rispetto della vita, c’è il dovere di non confondere chi rimane alla finestra indifferente, diventando inutile, e chi invece ha cose nuove da dire: e Maicol ci teneva a farsi capire, anche da un letto trasformato in una croce.

 

Vincenzo Andraous

 


       


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