Home page Scrivi  
 
  WelfareLombardia: punto laico di informazione e di impegno sociale
www.welfareeuropa.it www.welfareitalia.it www.welfarenetwork.it www.welfarecremona.it
 
Chi siamo Links Contatti Collabora con noi
... News Lombardia
 News da

... Welfare canali
Attualità
Costituente Lombarda PD
Costituente PD
Cronaca Lombarda
Cultura
Dal Mondo
Dall' Italia
Dall'Europa
Economia
Ecumenici
Eventi Lombardi
Il caso Tamoil
In Breve
L'Opinione
Lettere a WL
Mediateca
Pace
Pirellone News
Politica
Radio Londra
Sociale
Ultimissime dalla Lombardia
Volontariato
Welfare


... in breve
... Top five links












 Lettere a WL

04 Marzo, 2005
LAVORAVO ALLA LEGLER di Bruno ravasio
Io ho lavorato 17 anni alla Legler, prima di diventare sindacalista. Ma detta così, non si riesce a spiegare come la Legler abbia in realtà segnato la mia vita.

LAVORAVO ALLA LEGLER di Bruno ravasio

Io ho lavorato 17 anni alla Legler, prima di diventare sindacalista. Ma detta così, non si riesce a

spiegare come la Legler abbia in realtà segnato la mia vita (e con la mia quella di migliaia di persone  e di svariate generazioni).

Se penso soltanto alla mia famiglia, mio padre ci ha lavorato 47 anni e a sua volta ha preso il posto di mio nonno che è morto quando mio papà aveva 13 anni. Mia mamma ha lavorato molti anni in tintoria con mio padre: lì si sono conosciuti e poi sposati. Alla Legler ho conosciuto mia moglie, che ci ha lavorato  per 35 anni (quanti matrimoni Legler ci saranno stati nel corso di più di centoventi anni di attività?) e sempre alla Legler hanno lavorato un bel po' di zii e zie, sia per parte di madre che di padre, un buon gruppo di cugini, per non parlare di parenti di secondo grado in quantità industriale. Un mio zio ha lavorato 49 anni al cotonificio Bellora di Gazzaniga.

In un certo senso, dunque,  appartengo anch'io a una dinastia tessile. Sul versante lavoro e non quello del capitale, ma pur sempre una dinastia.

Naturalmente, sono nato nelle case operaie della Legler, che formavano il quartiere Giurati di Ponte San Pietro: un gruppo di 16 palazzine con 6 abitazioni ciascuna, allora dotate di orti, pollai, e due lavatoi pubblici. Dopo il boom economico degli anni '60, i lavatoi sono caduti in disuso e poi abbattuti, i pollai si sono trasformati in garage.

Quando sono nato, sono stato registrato all'anagrafe comunale e a quella dello "stabilimento" (così si diceva allora) ma non sono sicuro se proprio in questo ordine e non viceversa : allora i dipendenti usavano "prenotare" il posto ai propri figli e non era opportuno perdere tempo.

Così, ben prima di andarci a lavorare,  i tempi e i  ritmi della mia vita e di quella dei miei coetanei erano modellati sui tempi e sui ritmi della fabbrica. A tre anni si andava all'asilo infantile Legler. La minestra era quella che veniva distribuita anche agli operai: arrivava il carrello con il pentolone dopo aver fatto il giro dei reparti.  Il grembiulino era confezionato con il tessuto del pacco di "scampoli"  che a Natale toccava a ogni dipendente. Ricordo il quadro dei "benefattori" . Le suore erano dipendenti Legler . Quando qualche anno più tardi mi capitò di far parte del comitato elettorale per le elezioni della Commissione Interna, ci recammo anche all'asilo per far votare le suore che, appunto come dipendenti, avevano diritto di voto. Le suore gentilmente offrirono un bicchiere di vino e finì  che una scheda elettorale fu macchiata da una goccia di vino. Potemmo così capire il voto di una suora e con grande sorpresa scoprimmo che la suora aveva votato Cgil.

Poi veniva il tempo della scuola  e le nostre giornate erano scandite dal suono della sirena. Ci si alzava il mattino con la sirena (il coren) delle 7, si tornava con la sirena del mezzogiorno, nel pomeriggio d'estate si giocava al pallone e le partite duravano "fino alla sirena delle 5", la cena era pronta un minuto dopo la sirena delle sette di sera, suono che segnava l'interruzione  di qualsiasi gioco fosse in corso e l'obbligo teorico del rientro immediato in casa. In realtà era necessario un altro quarto d'ora buono di richiami materni e invocazioni di proroghe ( "ancora due minuti"), prima che il semplice affacciarsi o al più il ben noto fischio di un babbo alla finestra significasse il rapido rientro in massa nelle proprie abitazioni, senza eccezione alcuna.

Insomma, la fabbrica si proiettava sul territorio, ne condizionava i rapporti e i ritmi sociali. Il territorio riproduceva le gerarchie aziendali: da una parte il villaggio operaio e, di là del fiume che tagliava in due la fabbrica alimentandone l'energia, ma  di fronte alle case operaie e collocate un po' più in alto, ben visibili, le ville padronali, ricche, austere e con un alone di mistero, quasi la materializzazione dell'etica svizzero-protestante del capitalismo. Dietro le ville Legler, il quartiere "Paradiso"con le abitazioni dei dirigenti d'azienda.

Ma  la  divisione classista, così limpidamente rappresentata, non doveva originare conflitto ed ecco allora dispiegati tutti gli strumenti del controllo sociale. Le case in affitto solo fin quando si è  dipendenti dell'azienda, la cooperativa, l'asilo, le colonie estive per i figli dei dipendenti (obbligatoria la divisa confezionata con lo stesso tessuto della divisa degli operai, quasi a prefigurare il  probabile destino dei piccoli ospiti). E ancora il dopolavoro, le gite aziendali, il "pacco tessuti" di fine anno, ovvero il pacco con un certo numero di scampoli di tessuto ritagliati dalle pezze classificate di seconda scelta, molto atteso dalle famiglie dei dipendenti e che suscitava la sincera invidia di chi non lavorava alla Legler.

Un po' di socialismo utopista alla Owen, molto di capitalismo compassionevole. Quando arrivò il sessantotto, come vedremo, definimmo tutto questo "paternalismo aziendale" e le lotte  sancirono la fine di un'epoca.

Anche perché, oltre la portineria, la fabbrica mostrava il suo volto più crudo e perfino feroce.

Sono "entrato" alla Legler il 2 gennaio 1963, apprendista operaio "polivalente" in tintoria e  l'impatto fu piuttosto traumatico. Il rumore, il caldo, i vapori che emanavano dai "bagni"  di colore dentro cui giravano i rotoli di tessuto da tingere, gli uomini seminudi fra le macchine, i "sottopezza" ai piedi (protezione molto arcaica contro le gocce bollenti di colore), gli zoccoli: l'impressione fu quella di essere capitato in un girone dantesco dove gli operai erano persone molto diverse da quelle che conoscevo come rispettabili papà dei miei amici.  In filatura, elemento dominante era il pulviscolo che si forma quando il fiocco di cotone diventa filato : si posava sulle cose, sui vestiti, sui capelli, dava forma e spessore all'aria che si respirava. In tessitura, era il rumore insopportabile dei telai a navetta che battevano i loro colpi. Un frastuono incessante, ossessivo, chi ci lavorava comunicava solo con il linguaggio dei sordomuti. Compresi solo dopo essere entrato in un reparto di tessitura perchè le donne del  mio quartiere si intrattenevano dai balconi con lunghe chiacchierate mute, fatte solo di gesti: un po' per abitudine e soprattutto perché la sordità era la malattia professionale di quasi tutte, il tributo minimo che si doveva pagare alla certezza del "pane in vita", come veniva considerato il lavoro alla Legler.

Lo Statuto dei lavoratori era ancora lontano. L'orario di lavoro era di 48 ore settimanali, con 15 giorni di ferie all'anno. Le paghe erano inversamente proporzionali agli orari e il salario veniva versato in tre tranches: due acconti e un saldo mensile, in base al principio che non bisognava dare  la paga mensile tutta in una volta all'operaio, per sua natura evidentemente propenso a scialacquare magari in osteria i soldi a disposizione. Sembra assurdo ora, ma anche la mensilizzazione del salario fu una conquista di civiltà del ciclo sessantottino  di lotte. Naturalmente nei primi anni '60 le paghe erano differenziate per territori geografici (le famose gabbie salariali), per età (inferiore o superiore ai 18 anni) e per sesso. Ricordo ancora le tabelle contrattuali con le paghe orarie distinte, a  parità di mansione, in base alla lettere M (maschi) o F (femmine).

Insomma, al modello sociale di tipo inclusivo che la fabbrica imponeva e in qualche misura garantiva sul territorio, si contrapponeva all'interno una forte disciplina gerarchica, un controllo quasi di tipo poliziesco (un ruolo importante era svolto dai guardiani), paghe da fame e ambienti di lavoro nocivi. Il modello paternalistico non era uno scambio alla pari fra diritti e doveri, ma fra "concessioni", "favori" e "obblighi" più che doveri. E sulla base di questo scambio asimmetrico, oltre che sulla ben nota propensione al lavoro dei bergamaschi,  i Legler hanno potuto contare per quasi un secolo sull'assoluta dedizione   dei propri dipendenti. Mio padre era un tecnico tintore di notevoli e universalmente riconosciute capacità professionali, ma sacrificato nella carriera a causa della sua militanza attiva nel sindacato cattolico e ancor più perchè, in quanto membro del CLN di Ponte San Pietro, non aveva esitato a denunciare la Legler per le liste di dipendenti licenziati durante la guerra e trasmesse al comando tedesco di Bergamo per l'organizzazione Todt. Ma nonostante i torti subiti ha sempre svolto con notevole passione il suo lavoro. Intervistato per una   tesi di laurea molti anni dopo la pensione, mio padre ricordava  mia madre  che durante la guerra  lavorava  con lui in tintoria e quando sentiva l'allarme dei bombardamenti giustamente scappava negli appositi ricoveri. "Invece - aggiungeva  ancora con una nota di rimprovero a tanti anni di distanza - bisognava prima scaricare tutto il bagno altrimenti la pezza si rovinava". Prima il lavoro e solo dopo mettersi in salvo dalle bombe. Ecco,  la fortuna economica accumulata dai Legler era fatta non solo delle proprie indubbie capacità industriali, ma anche e soprattutto da questa etica del lavoro dei propri dipendenti e che si trasmetteva di generazione in generazione.

 

 

Proprio nell'anno in cui sono stato assunto alla Legler l'Istituto Tecnico Statale "Vittorio Emanuele II" aveva avviato i corsi serali per il diploma di ragioneria e io mi ero iscritto. Così, durante l'anno scolastico, avevo il permesso di "fare" sempre il primo turno (ero aiutante all'addetto a una nuova macchina per la tintura in continuo e il turno iniziava un'ora prima del normale, durando dalle 5 alle 13 del mattino) nel pomeriggio studiavo e la sera andavo a scuola. Mio padre, che iniziava il suo lavoro alle 8, si alzava tutte le mattine alle 4 per svegliarmi e prepararmi la colazione e alla sera mi aspettava con la minestra calda quando alle 23.30 tornavo da scuola con l'autobus da Bergamo.

Ricordo benissimo il mio primo sciopero di 8 ore in quel primo anno di lavoro. Ero felicissimo di non dovermi alzare dal letto alle 4, ma per meglio gustarmi quella gioia la sera prima chiesi a mio padre di svegliarmi ugualmente alla stessa ora, in modo che io potessi avere la soddisfazione di voltarmi dall'altra parte del letto. E mio padre il mattino dopo si alzò per dirmi "sono le 4 e puoi voltarti dall'altra parte!" Devo ammettere che il mio primo sciopero non fu un grande esempio di coscienza di classe, ma mi resta il ricordo tenerissimo di mio padre.

Più tardi vennero gli scioperi veri, le lotte dure ,  i picchetti alle portinerie contro i crumiri, i cortei interni, le denunce.  All'inizio confusamente, l'arroganza di un capo, un rimprovero immeritato e poi con  la percezione sempre più viva delle ingiustizie quotidiane fino  al licenziamento, con una scusa banale, di un operaio - padre di famiglia - il cui unico torto era quello di dichiararsi apertamente comunista (lo statuto dei lavoratori era ancora lontano) si era andato formando  dentro di me un senso di ribellione. Mi diplomai, svolsi il servizio militare e subito dopo scoppiò il sessantotto, e scoprii che questo senso di ribellione non era un mio fatto privato, ma collettivo e coinvolgeva un'intera generazione: era un vento che spirava in tutto il mondo.

Nel giro di pochissimo tempo, saltarono tutti gli schemi precedenti. Fu spazzato via il paternalismo aziendale, non si tollerarono più i tanti soprusi quotidiani, non si accettarono più i bassi salari, i ritmi e i carichi di lavoro furono messi in discussione, il pacco aziendale rifiutato e sostituito con il premio di produzione,  fu conquistata la mensa, si incominciò a capire che la fabbrica poteva far ammalare e uccidere, che taluni prodotti come i coloranti a base di amine aromatiche e la formaldeide impiegata per dare l'appretto ai tessuti erano cancerogeni. Una coscienza nuova, che superava anche l'ignoranza con cui i vecchi operai mi invitavano ad esempio a respirare intensamente il vapore del bagno di formaldeide quando avevo il raffreddore. E quel senso di sottomissione con cui si accettava la umiliante perquisizione personale in portineria all'uscita dal lavoro o la finestrella aperta nelle porte delle latrine per dare modo al guardiano di controllare se si fumava all'interno di esse.

Anche il precedente sistema di rappresentanza sindacale fu messo in discussione dall'esplosione di nuove rivendicazioni e forme di lotta radicali. Non più le vecchie e gloriose commissioni interne, ma i consigli di fabbrica espressione dei delegati per gruppi omogenei di reparto. Io feci in tempo a essere eletto nell'ultima commissione interna e a partecipare direttamente al processo di costruzione dei consigli di fabbrica. Lo Statuto dei lavoratori, che portava la democrazia nei luoghi di lavoro con il diritto di assemblea, impediva la discriminazione sindacale e sanciva con l'articolo 18 l'obbligo di reintegro del lavoratore ingiustamente licenziato, trasformò profondamente il modo di essere e di vivere all'interno dei luoghi di lavoro e diede impulso a una stagione esaltante di conquiste sindacali.

Fummo protagonisti di alcune vertenze durissime, i cui esiti influirono anche su una radicale trasformazione del modello organizzativo e produttivo della Legler, a dimostrazione che il conflitto spesso genera progresso. Il dott. Fredy Legler, infatti - devo dire con notevoli coraggio e lungimiranza - decise una riconversione della produzione dai precedenti tessuti di qualità ma molto diversificati (velluti, voiles, popelines ) a un tessuto per jeans, il denim, in pratica un monoprodotto di cui però la Legler divenne rapidamente il principale produttore europeo. Ci furono investimenti notevoli in nuovi macchinari, il decentramento di fasi produttive in altre realtà territoriali come in Sardegna, e questi nuovi processi richiesero una gestione sindacale molto complicata per governare la riduzione progressiva dei livelli occupazionali e orari di lavoro funzionali a un sempre maggiore utilizzo degli impianti. Quegli anni per me rappresentarono una grande scuola sindacale, direttamente sul campo, anche perché l'amministratore delegato con cui si svolgevano le trattative era il dott: Colli, presidente del Collegio Sindacale della Federtessile, l'uomo cioè che era delegato a trattare dalle associazioni padronali dei settori tessili e dell'abbigliamento per il rinnovo dei contratti nazionali di lavoro. Quando, nel 1980 fui chiamato a far parte, direttamente dalla fabbrica, della segreteria nazionale della Filtea Cgil, mi ritrovai così a gestire un durissimo rinnovo di contratto nazionale di lavoro con la stessa controparte che avevo in azienda. Ma questa è un'altra storia.

Ho descritto un mondo che non c'è più. Non c'è più la Legler, che dopo aver cambiato proprietà verso la  metà degli anni '80 ha iniziato un lungo declino, trasformato in degrado per le manovre speculative  del nuovo padrone e infine in una lenta agonia giunta proprio in questi giorni ormai alla sua conclusione. Non esistono quasi più, in senso generale,  l'industria radicata nel territorio e i conseguenti rapporti sociali. Globalizzazione dei mercati e della produzione, flessibilità e precarietà della prestazione  lavorativa, individualizzazione dei rapporti di lavoro, riduzione dei vincoli sociali sono i nuovi paradigmi con cui ci si deve misurare. Non si tratta di avere nostalgia del bel tempo passato. Anche perché - come abbiamo visto - non era poi così bello. Ma averne memoria può tornare utile anche per il futuro.

Bruno Ravasio

Bergamo 7 maggio 2008                                                                      

 


       


 Invia questa news ad un'amico Versione stampabile Visti: 1461 | Inviati: 0 | Stampato: 51)

Prossime:
Gli agenti atmosferici condizionano la viabilità Bergamasca – 04 Marzo, 2005
A Franci un esempiodella Casa del Giovane di Vincenzo Andraous – 04 Marzo, 2005
Riflessioni sul prossimo congresso del PD di F.Lena – 04 Marzo, 2005
L’ALTRA CITTA’ POSSIBILE di Vincenzo Andraous – 04 Marzo, 2005
Infami attacchi ai giornalisti di Paolo Bianchi – 04 Marzo, 2005

Precedenti:
Te piace 'o presepe? di Giovanni Colombo – 04 Marzo, 2005
Perché non ci sarà mai pace in Palestina. di Gianfredo Ruggiero  – 04 Marzo, 2005
L'audace fiammell del card. Tettamanzi di A, V. Gelormini – 04 Marzo, 2005
Penati, Expo 2015 Spa: agli amministratori nessun emolumento contrario alla legge. – 04 Marzo, 2005
La guerra di Franco Guindani – 04 Marzo, 2005








... dalle Province

• Bergamo. POESIA DI NATALE 2010
• Brescia. Il Prefetto di Brescia ha visitato i luoghi simbolo della Città di Lonato del Garda
• Como. frontalieri alla manifestazione europea del 29 settembre a Bruxelles
• Crema. Cappella Cantone non deve diventare una nuova Terzigno
• Cremona. Corso per barman
• Lecco.Dibattito su acqua pubblica
• Lodi.L’Italia dei Valori della Provincia di Lodi si struttura
• Mantova.Eventi di dicembre a Villa Maddalena di Goito
• Milano.Invito a partecipare alla serata di poesia con FRANZ KRAUSPENHAAR
• Milano. AltriMondiali by Matatu
• Milano. Nuovo numero di Altreconomia
• Monza: Concorso di Pittura “Paesaggi di Brianza” 2010 - II edizione
• Pavia. Fiaccolata contro la violenza fascista
• Sondrio.Gravedona: raccolti 35 quintali di lana grazie agli allevatori del Lario e del Ceresio
• Varese. Esordio per due nuovi assessori.





| Home | Chi siamo | Collabora con noi | PubblicitàDisclaimer | Email |
"  www.welfarelombardia.it supplemento di www.welfareitalia.it , portale di informazione on line, è iscritto nel registro della stampa periodica del Tribunale di Cremona al n. 392 del 24.9.2003- direttore responsabile Gian Carlo Storti
La redazione di Welfare Lombardia si dichiara pienamente disponibile ad eliminare le notizie che dovessero violare le norme sul copyright o nuocere a persone fisiche o giuridiche.
Copyright Welfare Lombardia 2002 - 2009